Come scrive Ghosh, “un ampio fallimento culturale e dell’immaginazione risiede al cuore della crisi climatica” (2017:8): un modo di immaginare il mondo basato sulla potenza conferita dal fossile, l’onnipotenza della crescita infinita, il liberarsi dai limiti come orpelli o deficit, e la perdita del linguaggio delle relazioni con nonumani, su cui tutte le culture hanno invece sempre dovuto investire. Perciò rimaniamo in una situazione di impensabile (Ghosh, 2017), del non trovare parole, e quindi anche pratiche di cambiamento, in un mondo che cambia: non riusciamo a pensare socialmente un’atmosfera che non segna più passaggi di stagione, che si mostra minacciosa e come blocco di futuro per le nuove generazioni. Mancano quindi cornici simboliche per elaborare collettivamente una transizione ecologica che è innanzitutto una transizione culturale, di immaginario e di metafore, oltre che di tecniche già disponibili, per abitare il mondo. Il linguaggio scientifico e il senso comune nell’affrontare la crisi ambientale vive di metafore, ma anche di una tragica assenza di cornici ambientali per parlare di relazioni, e non solo tra umani. Se il nostro modello è fondato sulla chiara dicotomia tra cultura e natura, esso mostra la difficoltà a cogliere le dinamiche della realtà che sbaragliano continuamente i cassetti ben ordinati, separati, tra soggetti di natura e soggetti della cultura. Come insegna il glaciologo Lorius: “e dunque il giorno in cui cambiamo lo sguardo, dobbiamo cambiare il vocabolario. Il giorno in cui cambia il mondo, bisogna cambiare i nomi” (2010:13). Non c’è elemento dell’ambiente con valenze simboliche così intense e tacite, quanto il petrolio, il carbone, i combustibili fossili alla base tanto del capitalismo estrattivo quanto dell’immaginario stesso della modernità: il suo millenarismo, l’apertura di un’epoca di sviluppo come finalità interna del tempo e del futuro come crescita infinita. La dimensione immaginale del fossile è proprio alla base dell’invenzione di un’idea di natura estraibile, gestibile e senza limiti, con la potenza energetica che questa ha sprigionato, assieme a CO2. Il fossile non è solo quindi una risorsa materiale, ma un apparato simbolico connesso alla mistica dell’abbondanza, ad un’idea dell’umano come grandioso, smisurato e divinizzato, che dimentica valori che tutte le culture hanno sempre dovuto tenere da conto: l’incompletezza, l’interdipendenza, la finitezza e i limiti. Più che le fonti fossili non rinnovabili, è lo stesso apparato simbolico “fossilizzato” nel capire il mondo ad essere in esaurimento e in profonda crisi, proprio perché nega continuamente le sue relazioni ambientali con altre forme di vita. Lo scacco dell’economia del carbonio si presenta come la “fine di un mondo” mentre è la fine di un modo di rappresentare il mondo.
Van Aken, M. (2024). Decarbonizzare l’immaginario culturale: verso molteplici dichiarazioni d’interdipendenza. QUADERNI DELLA DECRESCITA, 2, 253-263.
Decarbonizzare l’immaginario culturale: verso molteplici dichiarazioni d’interdipendenza
Van Aken, MI
2024
Abstract
Come scrive Ghosh, “un ampio fallimento culturale e dell’immaginazione risiede al cuore della crisi climatica” (2017:8): un modo di immaginare il mondo basato sulla potenza conferita dal fossile, l’onnipotenza della crescita infinita, il liberarsi dai limiti come orpelli o deficit, e la perdita del linguaggio delle relazioni con nonumani, su cui tutte le culture hanno invece sempre dovuto investire. Perciò rimaniamo in una situazione di impensabile (Ghosh, 2017), del non trovare parole, e quindi anche pratiche di cambiamento, in un mondo che cambia: non riusciamo a pensare socialmente un’atmosfera che non segna più passaggi di stagione, che si mostra minacciosa e come blocco di futuro per le nuove generazioni. Mancano quindi cornici simboliche per elaborare collettivamente una transizione ecologica che è innanzitutto una transizione culturale, di immaginario e di metafore, oltre che di tecniche già disponibili, per abitare il mondo. Il linguaggio scientifico e il senso comune nell’affrontare la crisi ambientale vive di metafore, ma anche di una tragica assenza di cornici ambientali per parlare di relazioni, e non solo tra umani. Se il nostro modello è fondato sulla chiara dicotomia tra cultura e natura, esso mostra la difficoltà a cogliere le dinamiche della realtà che sbaragliano continuamente i cassetti ben ordinati, separati, tra soggetti di natura e soggetti della cultura. Come insegna il glaciologo Lorius: “e dunque il giorno in cui cambiamo lo sguardo, dobbiamo cambiare il vocabolario. Il giorno in cui cambia il mondo, bisogna cambiare i nomi” (2010:13). Non c’è elemento dell’ambiente con valenze simboliche così intense e tacite, quanto il petrolio, il carbone, i combustibili fossili alla base tanto del capitalismo estrattivo quanto dell’immaginario stesso della modernità: il suo millenarismo, l’apertura di un’epoca di sviluppo come finalità interna del tempo e del futuro come crescita infinita. La dimensione immaginale del fossile è proprio alla base dell’invenzione di un’idea di natura estraibile, gestibile e senza limiti, con la potenza energetica che questa ha sprigionato, assieme a CO2. Il fossile non è solo quindi una risorsa materiale, ma un apparato simbolico connesso alla mistica dell’abbondanza, ad un’idea dell’umano come grandioso, smisurato e divinizzato, che dimentica valori che tutte le culture hanno sempre dovuto tenere da conto: l’incompletezza, l’interdipendenza, la finitezza e i limiti. Più che le fonti fossili non rinnovabili, è lo stesso apparato simbolico “fossilizzato” nel capire il mondo ad essere in esaurimento e in profonda crisi, proprio perché nega continuamente le sue relazioni ambientali con altre forme di vita. Lo scacco dell’economia del carbonio si presenta come la “fine di un mondo” mentre è la fine di un modo di rappresentare il mondo.File | Dimensione | Formato | |
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