Il ‘900 è stato il secolo delle dicotomie, la principale delle quali, in campo socio-economico, ha riguardato la relazione fra Stato e Mercato, indicativa di un quadro geopolitico fortemente connotato: da un lato i Paesi occidentali a forte prevalenza di Mercato, dall’altra lo Stato (paesi dell'est), con l’Europa alla ricerca di una terza via di equilibrio, che si è concretizzata nell’introduzione di logiche di welfare state per la redistribuzione del valore e il bilanciamento delle dinamiche sociali. Un equilibrio che si fonda su una complessa rete di relazioni e scambi fra i tre principali attori del sistema socio-economico: lo Stato, le imprese for profit e le organizzazioni della società civile. La crisi del 2007-08 ha generato un forte calo della capacità di profitto (in particolare per le società non finanziarie), creando una spirale negativa che ha contagiato gli altri settori, in particolare ridimensionando la capacità del welfare di redistribuire valore attraverso politiche e servizi pubblici, a fronte anche di una crescente domanda di assistenza, tutela e servizi sociali. Questo scenario sembra riproporre domande di ricerca già indagate da autori quali Weisbrod (1972), che tentò di teorizzare le ragioni della nascita e dello sviluppo del settore non profit in un’economia capitalista. Allo stesso tempo Salomon e Anheier (1996) concettualizzarono sei teorie per spiegare lo sviluppo del settore in relazione a specifiche dinamiche socio-economiche. Nel dibattito si inserisce anche Mintzberg (2015) che introduce il concetto di settore plurale, definendolo come quell’insieme di organizzazioni che, non essendo possedute o controllate né dallo Stato né da investitori privati, agiscono per il ribilanciamento della società. Estendendo la sua teoria, si potrebbe affermare che la missione sociale di queste organizzazioni si sostanzia con il raggiungimento di impatti sociali ed ambientali, e ha come effetto aggregato quello di creare condizioni di ribilanciamento delle disuguaglianze e quindi, ritornando a quanto introdotto da Weisbrod, di colmare quelle aree di insoddisfazione sorte per via dell’incapacità del settore pubblico e del settore for profit di far fronte a tutte le esigenze sociali. Questo saggio ha l’obiettivo di verificare empiricamente il comportamento e le performance delle organizzazioni plurali, sperimentando la proposta concettuale di Mintzberg nell’ecosistema di imprese sociali e di organizzazioni non profit italiane. Per identificare la loro propensione ad agire come organizzazioni plurali è stato utilizzato il framework teorico della tripla elica, che rappresenta gli ambiti di collaborazione tra tre attori del sistema socioeconomico (Stato, imprese, università).

Corvo, L., Pastore, L., Sonaglioni, A. (2017). Quanto sono plurali le imprese sociali?. IMPRESA SOCIALE, 9, 52-63.

Quanto sono plurali le imprese sociali?

Corvo, L;Pastore, L;
2017

Abstract

Il ‘900 è stato il secolo delle dicotomie, la principale delle quali, in campo socio-economico, ha riguardato la relazione fra Stato e Mercato, indicativa di un quadro geopolitico fortemente connotato: da un lato i Paesi occidentali a forte prevalenza di Mercato, dall’altra lo Stato (paesi dell'est), con l’Europa alla ricerca di una terza via di equilibrio, che si è concretizzata nell’introduzione di logiche di welfare state per la redistribuzione del valore e il bilanciamento delle dinamiche sociali. Un equilibrio che si fonda su una complessa rete di relazioni e scambi fra i tre principali attori del sistema socio-economico: lo Stato, le imprese for profit e le organizzazioni della società civile. La crisi del 2007-08 ha generato un forte calo della capacità di profitto (in particolare per le società non finanziarie), creando una spirale negativa che ha contagiato gli altri settori, in particolare ridimensionando la capacità del welfare di redistribuire valore attraverso politiche e servizi pubblici, a fronte anche di una crescente domanda di assistenza, tutela e servizi sociali. Questo scenario sembra riproporre domande di ricerca già indagate da autori quali Weisbrod (1972), che tentò di teorizzare le ragioni della nascita e dello sviluppo del settore non profit in un’economia capitalista. Allo stesso tempo Salomon e Anheier (1996) concettualizzarono sei teorie per spiegare lo sviluppo del settore in relazione a specifiche dinamiche socio-economiche. Nel dibattito si inserisce anche Mintzberg (2015) che introduce il concetto di settore plurale, definendolo come quell’insieme di organizzazioni che, non essendo possedute o controllate né dallo Stato né da investitori privati, agiscono per il ribilanciamento della società. Estendendo la sua teoria, si potrebbe affermare che la missione sociale di queste organizzazioni si sostanzia con il raggiungimento di impatti sociali ed ambientali, e ha come effetto aggregato quello di creare condizioni di ribilanciamento delle disuguaglianze e quindi, ritornando a quanto introdotto da Weisbrod, di colmare quelle aree di insoddisfazione sorte per via dell’incapacità del settore pubblico e del settore for profit di far fronte a tutte le esigenze sociali. Questo saggio ha l’obiettivo di verificare empiricamente il comportamento e le performance delle organizzazioni plurali, sperimentando la proposta concettuale di Mintzberg nell’ecosistema di imprese sociali e di organizzazioni non profit italiane. Per identificare la loro propensione ad agire come organizzazioni plurali è stato utilizzato il framework teorico della tripla elica, che rappresenta gli ambiti di collaborazione tra tre attori del sistema socioeconomico (Stato, imprese, università).
Articolo in rivista - Articolo scientifico
key performance, areas, rebalancing society
imprese sociali, terzo settore, settore plurale, tripla elica
Italian
2017
9
52
63
open
Corvo, L., Pastore, L., Sonaglioni, A. (2017). Quanto sono plurali le imprese sociali?. IMPRESA SOCIALE, 9, 52-63.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10281/420482
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