Il viaggio è stato consustanziale alla nascita dell’antropologia culturale: la partecipazione attraverso il lavoro etnografico alla vita di altri popoli in altri ambienti, spesso lontani è diventata parte integrante della stessa metodologia di ricerca, della sua cassetta degli attrezzi. In particolare, lo straniamento di ogni viaggio, quando effettivamente si esce dalle proprie categorie, abitudini e ambienti che orientano la vita, sono parte integrante di quel lento addomesticamento altrove: un viaggio di nuovi linguaggi, parole, significati, gusti di cibo e sguardi a nuovi ambienti, un graduale appropriarsi delle prospettive culturali di chi ci ospita, nell’apprendere la diversità culturale per renderla a poco a poco familiare e riconoscerne diversità ma anche dversità. Viaggio altrove quindi per uscire dal proprio etnocentrismo, per accogliere e poter tradurre le prospettive di altri attori sociali e di altri modi di guardare il mondo. E la fertilità del viaggio non risiede unicamente nell’estraniamento e disorientamento inziale, ma è stato definito il “viaggio più lungo dell’antropologia”: perché proprio quell’uscire fuori dalle proprie, e intime, categorie per capire e dare senso al mondo altrimenti, permette di “ritornare” con nuove prospettive a casa propria: aiuta a vedere la propria cultura con nuove prospettive, comparando ciò che ci sembrava naturale in una presa di distanza per riscoprire ciò che davamo per scontato. Qui tratterò di un viaggio radicalmente diverso: un viaggio in cui tutti siamo immersi da qualche decennio, ma solo ora iniziamo a definirlo seppur con difficoltà. Un viaggio inedito, proprio a partire dalla sua forma: non abbiamo bisogno di muoverci perché è tutto il resto del mondo che viaggia! E non mi riferisco qui alle migrazioni, ai flussi di merci globali o ai flussi mediatici che in effetti disegnano un mondo intensamente in movimento, di icone, di linguaggi e diversità che trascendono i luoghi. Si tratta di un viaggio nell’Antropocene, in cui già siamo immersi, ma nessuno ci ha dato né il benvenuto, né un biglietto di andata e ritorno, né una mappa per orientarci sulle abitudini locali di questo mondo. E proprio per questo, più che “in viaggio” ci sentiamo “viaggiati” da altri attori, ci ritroviamo quasi passivi e disorientati rispetto ad un mondo in movimento. Perché i cambiamenti climatici disegnano un nuovo mondo che è già in corso, dove nuovi sistemi climatici in oscillazione ci invadono e si muovono nei nostri territori, e dove l’ambiente è il primo fattore a cambiare. Non tratterò quindi dei luoghi tradizionali della ricerca antropologica, esotici o lontani, ma sicuramente di un nuovo luogo e tempo assieme che si presenta, stando fermi, come estraniante: l’ambiente attorno a noi, e gli scenari che si aprono guardando al prossimo futuro del surriscaldamento globale a causa dei gas climalteranti si presentano come Altro da noi, un viaggio anche perturbante, che sono i tempi che viviamo. Indubbiamente ha definito il viaggio più intenso che ho percorso, nella vita e nel lavoro. Siamo in una nuova faglia temporale e ambientale, l’Antropocene, ma non sappiamo indicare il punto su di una mappa, come quando è indicato con una freccia “tu sei qui” per orientarci. Ecco, abbiamo bisogno di indicare quel punto su una mappa, in questo viaggio in cui già ci ritroviamo, che porta tanti spaventi e forme di estraniamento, ma anche, come ogni viaggio, collettivo questo, inevitabili e necessarie sguardi creativi e scoperte da condividere. Il primo, è quello di riconoscere dove e con chi siamo: nuovi attori, quelli ambientali, rispuntano alla nostra vista, forze nonumane interagiscono, agiscono, viaggiano, si muovono in modalità inusitate in quella che è stata definita, una “grande accelerazione”. E abbiamo bisogno di riconoscere questo viaggio, come il dito sulla mappa, orientarci per cambiare rotta. Il mio viaggio nell’Antropocene è stato affrontare disorientamenti, con dimensioni emotive di un futuro che sembra chiudersi e di un ambiente che si degrada e non sempre facili, discrete da elaborare, ma anch’essi come ogni viaggio estraniante fanno parte del gioco; e innanzitutto, è stato un viaggio in un territorio solo apparentemente nuovo, certamente inedito fondato sul riconoscere dovevo cambiare la cassetta degli attrezzi, perché se il mondo è cambiato, abbiamo bisogno di nuove parole e metafore per dirlo e condividerlo. Un viaggio non più in altre culture lontane, o in altre nature esotiche, ma in territori materiali e metaforici assieme, dove naturacultura si incontrano, dove desiderare e non più rimuovere le relazioni in cui siamo immersi. E che mi ha portato a scrivere Campati per aria (2020), un testo per orientare innanzitutto me stesso, per condividerlo con altri e altre, come una mappa di questo nuovo viaggio con nuovi compagni a cui siamo interdipendenti.
Van Aken, I. (2021). Viaggio nell'Antropocene: culture nei cambiamenti climatici. In M. GIUSTI (a cura di), Ti racconto il viaggio (e quel che ho imparato) (pp. 232-248). Milano : Franco Angeli.
Viaggio nell'Antropocene: culture nei cambiamenti climatici
Van Aken, I
2021
Abstract
Il viaggio è stato consustanziale alla nascita dell’antropologia culturale: la partecipazione attraverso il lavoro etnografico alla vita di altri popoli in altri ambienti, spesso lontani è diventata parte integrante della stessa metodologia di ricerca, della sua cassetta degli attrezzi. In particolare, lo straniamento di ogni viaggio, quando effettivamente si esce dalle proprie categorie, abitudini e ambienti che orientano la vita, sono parte integrante di quel lento addomesticamento altrove: un viaggio di nuovi linguaggi, parole, significati, gusti di cibo e sguardi a nuovi ambienti, un graduale appropriarsi delle prospettive culturali di chi ci ospita, nell’apprendere la diversità culturale per renderla a poco a poco familiare e riconoscerne diversità ma anche dversità. Viaggio altrove quindi per uscire dal proprio etnocentrismo, per accogliere e poter tradurre le prospettive di altri attori sociali e di altri modi di guardare il mondo. E la fertilità del viaggio non risiede unicamente nell’estraniamento e disorientamento inziale, ma è stato definito il “viaggio più lungo dell’antropologia”: perché proprio quell’uscire fuori dalle proprie, e intime, categorie per capire e dare senso al mondo altrimenti, permette di “ritornare” con nuove prospettive a casa propria: aiuta a vedere la propria cultura con nuove prospettive, comparando ciò che ci sembrava naturale in una presa di distanza per riscoprire ciò che davamo per scontato. Qui tratterò di un viaggio radicalmente diverso: un viaggio in cui tutti siamo immersi da qualche decennio, ma solo ora iniziamo a definirlo seppur con difficoltà. Un viaggio inedito, proprio a partire dalla sua forma: non abbiamo bisogno di muoverci perché è tutto il resto del mondo che viaggia! E non mi riferisco qui alle migrazioni, ai flussi di merci globali o ai flussi mediatici che in effetti disegnano un mondo intensamente in movimento, di icone, di linguaggi e diversità che trascendono i luoghi. Si tratta di un viaggio nell’Antropocene, in cui già siamo immersi, ma nessuno ci ha dato né il benvenuto, né un biglietto di andata e ritorno, né una mappa per orientarci sulle abitudini locali di questo mondo. E proprio per questo, più che “in viaggio” ci sentiamo “viaggiati” da altri attori, ci ritroviamo quasi passivi e disorientati rispetto ad un mondo in movimento. Perché i cambiamenti climatici disegnano un nuovo mondo che è già in corso, dove nuovi sistemi climatici in oscillazione ci invadono e si muovono nei nostri territori, e dove l’ambiente è il primo fattore a cambiare. Non tratterò quindi dei luoghi tradizionali della ricerca antropologica, esotici o lontani, ma sicuramente di un nuovo luogo e tempo assieme che si presenta, stando fermi, come estraniante: l’ambiente attorno a noi, e gli scenari che si aprono guardando al prossimo futuro del surriscaldamento globale a causa dei gas climalteranti si presentano come Altro da noi, un viaggio anche perturbante, che sono i tempi che viviamo. Indubbiamente ha definito il viaggio più intenso che ho percorso, nella vita e nel lavoro. Siamo in una nuova faglia temporale e ambientale, l’Antropocene, ma non sappiamo indicare il punto su di una mappa, come quando è indicato con una freccia “tu sei qui” per orientarci. Ecco, abbiamo bisogno di indicare quel punto su una mappa, in questo viaggio in cui già ci ritroviamo, che porta tanti spaventi e forme di estraniamento, ma anche, come ogni viaggio, collettivo questo, inevitabili e necessarie sguardi creativi e scoperte da condividere. Il primo, è quello di riconoscere dove e con chi siamo: nuovi attori, quelli ambientali, rispuntano alla nostra vista, forze nonumane interagiscono, agiscono, viaggiano, si muovono in modalità inusitate in quella che è stata definita, una “grande accelerazione”. E abbiamo bisogno di riconoscere questo viaggio, come il dito sulla mappa, orientarci per cambiare rotta. Il mio viaggio nell’Antropocene è stato affrontare disorientamenti, con dimensioni emotive di un futuro che sembra chiudersi e di un ambiente che si degrada e non sempre facili, discrete da elaborare, ma anch’essi come ogni viaggio estraniante fanno parte del gioco; e innanzitutto, è stato un viaggio in un territorio solo apparentemente nuovo, certamente inedito fondato sul riconoscere dovevo cambiare la cassetta degli attrezzi, perché se il mondo è cambiato, abbiamo bisogno di nuove parole e metafore per dirlo e condividerlo. Un viaggio non più in altre culture lontane, o in altre nature esotiche, ma in territori materiali e metaforici assieme, dove naturacultura si incontrano, dove desiderare e non più rimuovere le relazioni in cui siamo immersi. E che mi ha portato a scrivere Campati per aria (2020), un testo per orientare innanzitutto me stesso, per condividerlo con altri e altre, come una mappa di questo nuovo viaggio con nuovi compagni a cui siamo interdipendenti.File | Dimensione | Formato | |
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