Il dibattito politico riguardante la crisi migratoria in Italia pare porre ormai al centro questioni di ordine pubblico e di gestione delle risorse disponibili, a scapito dei profili umanitari. Benché il problema continui a porsi su due fronti, l’accoglienza dei richiedenti asilo, l’allontanamento di chi entra e soggiorna illegalmente, l’impronta securitaria sembra aver assunto indubbia prevalenza. In questo scenario, il ruolo delle autorità amministrative viene in rilievo, mentre la giurisdizione sembra recessiva, giacché l’accesso alla giustizia da parte degli interessati è limitato, soprattutto da ragioni metagiuridiche. Ciò nonostante, capita che questioni amministrative che riguardano le posizioni giuridiche soggettive dei migranti siano sottoposte all’attenzione di giudici che non sono stati aditi volontariamente dai destinatari. Una di queste ipotesi riguarda l’intreccio fra disciplina amministrativa e penale che è stato creato dal legislatore nazionale, che ha predisposto fattispecie incriminatrici che, in aggiunta all’art. 650 c.p., puniscono la violazione di quelle misure amministrative che presidiano esigenze di ordine pubblico, come gli ordini di allontanamento del questore o i c.d. “daspo urbani”. Ne risulta una disciplina amministrativa che concorre a definire il fatto di reato, o a individuare le cause di esclusione delle responsabilità, senza che sia stabilita una regola di calibratura dei rapporti fra procedimento amministrativo (ed eventuale fase contenziosa) e procedimento penale. Capita così di frequente che, a fronte all’esistenza di atti amministrativi che costituiscono il presupposto dell’integrazione di reati di inosservanza o disobbedienza e che vengono ritenuti illegittimi da parte dei giudici penali, questi ultimi si trovino nella “tentazione” di disapplicare gli stessi, decidendo come se non fossero mai stati emanati. La disapplicazione viene invocata per escludere la responsabilità penale degli imputati, ed è quindi figlia di orientamenti garantisti, ma comporta che il giudice penale si arroghi il potere di sindacare le modalità attraverso cui l’attività amministrativa si è concretizzata, peraltro ricorrendo a un espediente processuale che sembrava essere stato accantonato da una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 1993. Il problema, in generale, riguarda la separazione fra poteri dello Stato, mentre, in una prospettiva più concreta, comporta la necessità di stabilire la fattibilità, i contorni e le condizioni di tale sindacato, avendo riguardo alle conseguenze dell’impostazione prescelta. L’ambiguità dei confini della giurisdizione penale rischia anzitutto di frammentare le decisioni: se in alcuni casi si vorrà privilegiare la stabilità dell’atto amministrativo e, quindi, l’ambito delle prerogative della P.A., in altri, viceversa, si potrebbe valorizzare la prospettiva garantista. Trattandosi di dichiarazioni di illegittimità – seppur incidenter – di atti che comunque incidono sulla libertà personale, ci si deve interrogare sui riflessi che il giudicato penale potrebbe assumere nel proseguo delle vicende amministrative, soprattutto allorquando siano spirati i termini d’impugnazione in sede amministrativa. La necessità di restituire coerenza a eventuali fratture nelle determinazioni dei diversi poteri non potrà prescindere da attente valutazioni che tengano conto delle ricadute sulla vita degli individui coinvolti, soprattutto in termini di parità di trattamento.

Lavatelli, M. (2019). Giurisdizione penale, sicurezza pubblica e provvedimenti in materia d’immigrazione, fra garantismo e separazione dei poteri.. Intervento presentato a: «Il ruolo del giudice di fronte alla crisi migratoria, economica e della sicurezza in Francia e in Italia», Tolosa (FRA).

Giurisdizione penale, sicurezza pubblica e provvedimenti in materia d’immigrazione, fra garantismo e separazione dei poteri.

Lavatelli, M
2019

Abstract

Il dibattito politico riguardante la crisi migratoria in Italia pare porre ormai al centro questioni di ordine pubblico e di gestione delle risorse disponibili, a scapito dei profili umanitari. Benché il problema continui a porsi su due fronti, l’accoglienza dei richiedenti asilo, l’allontanamento di chi entra e soggiorna illegalmente, l’impronta securitaria sembra aver assunto indubbia prevalenza. In questo scenario, il ruolo delle autorità amministrative viene in rilievo, mentre la giurisdizione sembra recessiva, giacché l’accesso alla giustizia da parte degli interessati è limitato, soprattutto da ragioni metagiuridiche. Ciò nonostante, capita che questioni amministrative che riguardano le posizioni giuridiche soggettive dei migranti siano sottoposte all’attenzione di giudici che non sono stati aditi volontariamente dai destinatari. Una di queste ipotesi riguarda l’intreccio fra disciplina amministrativa e penale che è stato creato dal legislatore nazionale, che ha predisposto fattispecie incriminatrici che, in aggiunta all’art. 650 c.p., puniscono la violazione di quelle misure amministrative che presidiano esigenze di ordine pubblico, come gli ordini di allontanamento del questore o i c.d. “daspo urbani”. Ne risulta una disciplina amministrativa che concorre a definire il fatto di reato, o a individuare le cause di esclusione delle responsabilità, senza che sia stabilita una regola di calibratura dei rapporti fra procedimento amministrativo (ed eventuale fase contenziosa) e procedimento penale. Capita così di frequente che, a fronte all’esistenza di atti amministrativi che costituiscono il presupposto dell’integrazione di reati di inosservanza o disobbedienza e che vengono ritenuti illegittimi da parte dei giudici penali, questi ultimi si trovino nella “tentazione” di disapplicare gli stessi, decidendo come se non fossero mai stati emanati. La disapplicazione viene invocata per escludere la responsabilità penale degli imputati, ed è quindi figlia di orientamenti garantisti, ma comporta che il giudice penale si arroghi il potere di sindacare le modalità attraverso cui l’attività amministrativa si è concretizzata, peraltro ricorrendo a un espediente processuale che sembrava essere stato accantonato da una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 1993. Il problema, in generale, riguarda la separazione fra poteri dello Stato, mentre, in una prospettiva più concreta, comporta la necessità di stabilire la fattibilità, i contorni e le condizioni di tale sindacato, avendo riguardo alle conseguenze dell’impostazione prescelta. L’ambiguità dei confini della giurisdizione penale rischia anzitutto di frammentare le decisioni: se in alcuni casi si vorrà privilegiare la stabilità dell’atto amministrativo e, quindi, l’ambito delle prerogative della P.A., in altri, viceversa, si potrebbe valorizzare la prospettiva garantista. Trattandosi di dichiarazioni di illegittimità – seppur incidenter – di atti che comunque incidono sulla libertà personale, ci si deve interrogare sui riflessi che il giudicato penale potrebbe assumere nel proseguo delle vicende amministrative, soprattutto allorquando siano spirati i termini d’impugnazione in sede amministrativa. La necessità di restituire coerenza a eventuali fratture nelle determinazioni dei diversi poteri non potrà prescindere da attente valutazioni che tengano conto delle ricadute sulla vita degli individui coinvolti, soprattutto in termini di parità di trattamento.
abstract
Giudice penale, Giudice amministrativo, sicurezza integrata, disapplicazione, macroscopica illegittimità, immigrazione, sicurezza pubblica, amministrazione, pubblica amministrazione
Italian
«Il ruolo del giudice di fronte alla crisi migratoria, economica e della sicurezza in Francia e in Italia»
2019
2019
none
Lavatelli, M. (2019). Giurisdizione penale, sicurezza pubblica e provvedimenti in materia d’immigrazione, fra garantismo e separazione dei poteri.. Intervento presentato a: «Il ruolo del giudice di fronte alla crisi migratoria, economica e della sicurezza in Francia e in Italia», Tolosa (FRA).
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10281/254262
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