Avere oggi uno straniero ogni 25 residenti forse non è ancora un segnale di eccesso, tuttavia solo quindici anni fa lo stesso rapporto era di circa uno ogni 160 residenti. E’ vero che la crescita è sempre stata rapida e sostanzialmente riconducibile alla componente regolare (anche grazie alle numerose sanatorie), ma in questo inizio secolo i tassi di aumento hanno superato il 20% annuo: hanno raggiunto ritmi tali da prefigurare un raddoppio ogni poco più di tre anni. Sorge allora una prima questione di “arido bilancio quantitativo”: assumendo che gli oltre tre milioni di stranieri (per lo più provenienti dai così detti “Paesi a forte pressione migratoria”) attualmente presenti in Italia possano, ai tassi di sviluppo di questi tempi, raggiungere i dieci milioni nell’arco di poco più di un quinquennio, il sistema Paese sarebbe in grado di assorbire un impatto di quest’ordine di grandezza? Lo scenario di un’Italia che tra pochi anni dovesse presentare quasi 65 milioni di residenti con un cittadino straniero ogni 6, è da ritenersi accettabile senza alcuna riserva? Viene da chiedersi se saremo in grado di vivere e di governare un intenso incremento demografico – con tassi di crescita mai sperimentati nella storia del Paese- lasciando che sia l’immigrazione a determinare in via esclusiva lo sviluppo della popolazione che appartiene al segmento produttivo, a quello riproduttivo e al conseguente capitale umano in fase di formazione; il tutto, mentre il contributo allo sviluppo demografico da parte degli autoctoni sarebbe relegato unicamente alla componente anziana. Ciò posto, ove non si ritenga auspicabile, o semplicemente non gestibile, tale dinamica, quali indirizzi conviene assumere per attenuare la crescita della popolazione straniera, possibilmente con effetti di contenimento già nel breve periodo? E’ più opportuno agire sul freno agli ingressi o è preferibile intervenire sull’accelerazione delle uscite dal collettivo degli stranieri? La prima soluzione è quella verso cui ci si è mossi sino ad ora tra molteplici difficoltà che, come è ben noto, vanno dalla faticosa ricerca di criteri (condivisi) di contingentamento e di selezione degli ingressi, alla necessaria formulazione (nel rispetto dei fondamentali principi etici e giuridici) delle corrispondenti norme e dei regolamenti di attuazione; dalla programmazione di ipotetici controlli e l’intimazione di espulsioni “sulla carta”, alla concreta attivazione degli uni e delle altre con risorse umane e finanziarie non sempre adeguate. In ogni caso, l’esperienza del passato e le riflessioni sulla realtà del nostro tempo fanno ritenere che gli interventi di chiusura, o anche solo di eccessiva contrazione, degli ingressi potrebbero rivelarsi inadatti all’obiettivo. Da un lato, forti limitazioni ai flussi di natura economica finirebbero per alimentare il serbatoio della clandestinità (stante la persistente domanda di forza lavoro immigrata da parte di imprese e famiglie), dall’altro, l’introduzione di pesanti ostacoli agli ingressi per motivi familiari potrebbe svolgere un ruolo frenante nel processo di radicamento (e verosimilmente di integrazione) degli immigrati che viene per l’appunto promosso attraverso i ricongiungimenti familiari. D’altra parte la seconda soluzione, quella dell’incentivazione delle uscite, può sembrare a prima vista meno immediata, ma per certi versi potrebbe anche risultare più efficace dello stesso freno agli ingressi. Alla base di tale proposta c’è una ragionevole intenzione di tenere adeguatamente conto della tipologia di progetto migratorio. Ad esempio, perché non sancire il trasferimento dal collettivo degli stranieri a quello dei cittadini italiani per tutti quei soggetti che hanno realizzato un percorso di stabilità e che portano avanti un progetto di permanenze definitiva nel nostro Paese? A tale proposito basterebbe rivedere, pur con tutte le doverose garanzie ma senza eccessi di formalismo, le regole di acquisizione della cittadinanza. Una seconda via per contenere la crescita della popolazione straniera agendo sulle uscite dal corrispondente collettivo potrebbe configurarsi nello sviluppo regolamentato (eventualmente incentivato) di progetti di permanenze temporanea programmata (non semplicemente stagionale). In tal senso, le ricerche segnalano quote non marginali di stranieri (emblematico è il caso delle badanti 40-50enni ucraine) il cui progetto migratorio è molto spesso “a obiettivo” e limitato nel tempo. In questi casi non sarebbe forse opportuno formalizzare legalmente accordi di turn over (magari partendo in via sperimentale proprio in corrispondenza del lavoro per le famiglie)? Non si potrebbe altresì valutare la possibilità di realizzare in ambito produttivo (industria, commercio e artigianato) specifiche forme/accordi di rientro degli immigrati nel paese di origine dopo aver maturato esperienze e acquisito un minimo di risorse da investire in loco? E’ evidente che la soluzione ottimale per il controllo della crescita non potrà che comportare azioni su entrambe le leve. Tuttavia, se sul fronte degli ingressi sarà strategica la capacità/abilità di impostare una equilibrata definizione delle quote, su quello delle uscite occorrerà soprattutto saper lavorare con impegno sulla revisione delle norme e con fantasia sulla realizzazione di nuove proposte.

Blangiardo, G., Molina, S. (2006). Immigrazione e presenza straniera. In Gruppo di Coordinamento per la Demografia - SIS (a cura di), Generazioni, famiglie, migrazioni. Pensando all'Italia di domani (pp. 63-97). TORINO -- ITA : Edizioni Fondazione Agnelli.

Immigrazione e presenza straniera

BLANGIARDO, GIAN CARLO;
2006

Abstract

Avere oggi uno straniero ogni 25 residenti forse non è ancora un segnale di eccesso, tuttavia solo quindici anni fa lo stesso rapporto era di circa uno ogni 160 residenti. E’ vero che la crescita è sempre stata rapida e sostanzialmente riconducibile alla componente regolare (anche grazie alle numerose sanatorie), ma in questo inizio secolo i tassi di aumento hanno superato il 20% annuo: hanno raggiunto ritmi tali da prefigurare un raddoppio ogni poco più di tre anni. Sorge allora una prima questione di “arido bilancio quantitativo”: assumendo che gli oltre tre milioni di stranieri (per lo più provenienti dai così detti “Paesi a forte pressione migratoria”) attualmente presenti in Italia possano, ai tassi di sviluppo di questi tempi, raggiungere i dieci milioni nell’arco di poco più di un quinquennio, il sistema Paese sarebbe in grado di assorbire un impatto di quest’ordine di grandezza? Lo scenario di un’Italia che tra pochi anni dovesse presentare quasi 65 milioni di residenti con un cittadino straniero ogni 6, è da ritenersi accettabile senza alcuna riserva? Viene da chiedersi se saremo in grado di vivere e di governare un intenso incremento demografico – con tassi di crescita mai sperimentati nella storia del Paese- lasciando che sia l’immigrazione a determinare in via esclusiva lo sviluppo della popolazione che appartiene al segmento produttivo, a quello riproduttivo e al conseguente capitale umano in fase di formazione; il tutto, mentre il contributo allo sviluppo demografico da parte degli autoctoni sarebbe relegato unicamente alla componente anziana. Ciò posto, ove non si ritenga auspicabile, o semplicemente non gestibile, tale dinamica, quali indirizzi conviene assumere per attenuare la crescita della popolazione straniera, possibilmente con effetti di contenimento già nel breve periodo? E’ più opportuno agire sul freno agli ingressi o è preferibile intervenire sull’accelerazione delle uscite dal collettivo degli stranieri? La prima soluzione è quella verso cui ci si è mossi sino ad ora tra molteplici difficoltà che, come è ben noto, vanno dalla faticosa ricerca di criteri (condivisi) di contingentamento e di selezione degli ingressi, alla necessaria formulazione (nel rispetto dei fondamentali principi etici e giuridici) delle corrispondenti norme e dei regolamenti di attuazione; dalla programmazione di ipotetici controlli e l’intimazione di espulsioni “sulla carta”, alla concreta attivazione degli uni e delle altre con risorse umane e finanziarie non sempre adeguate. In ogni caso, l’esperienza del passato e le riflessioni sulla realtà del nostro tempo fanno ritenere che gli interventi di chiusura, o anche solo di eccessiva contrazione, degli ingressi potrebbero rivelarsi inadatti all’obiettivo. Da un lato, forti limitazioni ai flussi di natura economica finirebbero per alimentare il serbatoio della clandestinità (stante la persistente domanda di forza lavoro immigrata da parte di imprese e famiglie), dall’altro, l’introduzione di pesanti ostacoli agli ingressi per motivi familiari potrebbe svolgere un ruolo frenante nel processo di radicamento (e verosimilmente di integrazione) degli immigrati che viene per l’appunto promosso attraverso i ricongiungimenti familiari. D’altra parte la seconda soluzione, quella dell’incentivazione delle uscite, può sembrare a prima vista meno immediata, ma per certi versi potrebbe anche risultare più efficace dello stesso freno agli ingressi. Alla base di tale proposta c’è una ragionevole intenzione di tenere adeguatamente conto della tipologia di progetto migratorio. Ad esempio, perché non sancire il trasferimento dal collettivo degli stranieri a quello dei cittadini italiani per tutti quei soggetti che hanno realizzato un percorso di stabilità e che portano avanti un progetto di permanenze definitiva nel nostro Paese? A tale proposito basterebbe rivedere, pur con tutte le doverose garanzie ma senza eccessi di formalismo, le regole di acquisizione della cittadinanza. Una seconda via per contenere la crescita della popolazione straniera agendo sulle uscite dal corrispondente collettivo potrebbe configurarsi nello sviluppo regolamentato (eventualmente incentivato) di progetti di permanenze temporanea programmata (non semplicemente stagionale). In tal senso, le ricerche segnalano quote non marginali di stranieri (emblematico è il caso delle badanti 40-50enni ucraine) il cui progetto migratorio è molto spesso “a obiettivo” e limitato nel tempo. In questi casi non sarebbe forse opportuno formalizzare legalmente accordi di turn over (magari partendo in via sperimentale proprio in corrispondenza del lavoro per le famiglie)? Non si potrebbe altresì valutare la possibilità di realizzare in ambito produttivo (industria, commercio e artigianato) specifiche forme/accordi di rientro degli immigrati nel paese di origine dopo aver maturato esperienze e acquisito un minimo di risorse da investire in loco? E’ evidente che la soluzione ottimale per il controllo della crescita non potrà che comportare azioni su entrambe le leve. Tuttavia, se sul fronte degli ingressi sarà strategica la capacità/abilità di impostare una equilibrata definizione delle quote, su quello delle uscite occorrerà soprattutto saper lavorare con impegno sulla revisione delle norme e con fantasia sulla realizzazione di nuove proposte.
Capitolo o saggio
Migrazioni, presenza straniera, politiche migratorie
Italian
Generazioni, famiglie, migrazioni. Pensando all'Italia di domani
Gruppo di Coordinamento per la Demografia - SIS
2006
978-88-7860-203-8
1
Edizioni Fondazione Agnelli
63
97
Blangiardo, G., Molina, S. (2006). Immigrazione e presenza straniera. In Gruppo di Coordinamento per la Demografia - SIS (a cura di), Generazioni, famiglie, migrazioni. Pensando all'Italia di domani (pp. 63-97). TORINO -- ITA : Edizioni Fondazione Agnelli.
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