Il saggio ripercorre il ruolo e la rilevanza giuridica del silenzio dell’imputato nel rito processuale penale. Prendendo le mosse dalla legge di revisione costituzionale del 1999 (che ha introdotto i principi del ‘giusto processo)’, dalle conseguenti modifiche subite dall’art. 111 della nostra Costituzione, e dalla legge n. 63 del 2001 (che ha innovato in modo significativo l’art. 64 del c.p.p. dell’89) si ripercorre la storia del ‘silenzio’ per sottolineare con maggior evidenza le novità apportate delle recenti trasformazioni legislative. A partire dal Settecento, il saggio attraversa secoli di storia, illustrando il pensiero dei più autorevoli giuristi espressisi sul tema tra XVIII e XX secolo, nonché le metamorfosi normative intervenute nel medesimo arco temporale nell’esperienza europea. Nella logica del rito inquisitorio, che si fondava sulla parola dell’imputato, considerato fonte di prova nel processo che lo vedeva protagonista, il silenzio era inteso come un’offesa alla corretta amministrazione della giustizia. Per queste ragioni il taciturnus era sottoposto a tortura, affinché rivelasse le informazioni di cui si riteneva inevitabilmente in possesso. L’influenza del giusnaturalismo prima e dell’illuminismo poi, con l’enucleazione dei diritti naturali inviolabili dell’uomo (tra cui annoverare il diritto alla difesa) aprirono una breccia in una simile monolitica concezione: per un Beccaria deludente sul punto, un Franchino Rusca o un Gaetano Filangieri adombrarono precocemente la possibilità di riconoscere all’imputato un vero e proprio diritto al silenzio, mentre più cauta appariva la legislazione europea settecentesca, ancora timida nel rinunciare a forme punitive nei confronti dell’imputato silente. Un modello di riferimento importante per le successive modulazioni codicistiche sarà rappresentato del Codice di procedura penale per il Regno d’ Italia del 1807, che cristallizzerà una norma destinata a rappresentare un esempio emulato dai codici successivi: nel caso in cui l’accusato persistesse nel rifiuto a rispondere alle domande rivoltegli dal giudice, lo si avvertiva che si sarebbe proceduto nell’istruzione suo malgrado. Si modellerà su questa disposizione l’art. 261 del c.p.p. del ’13 che, pur innovando profondamente rispetto al rito del 1865, non riuscì a compiere una vera riforma ‘liberale’, pur prospettata in fase di lavori preparatori: da più parti, infatti, si era richiesto che il giudice avvertisse l’imputato dell’esistenza di un suo diritto a non rispondere, ma vanamente. Un completo ribaltamento di prospettive avvenne con il c.p.p. del ’30, che travolse anche quel semplice avvertimento o ammonizione presente nel testo Finocchiaro-Aprile, recuperando il clima del più remoto passato e ponendo nuovamente in capo all’imputato l’obbligo di parlare. Soltanto nel 1969, dopo un lungo cammino di conquista di civiltà, il principio del nemo tenetur se detegere riuscì ad ottenere pieno riconoscimento, trasformando l’interrogatorio da mezzo di prova a strumento di difesa.
Garlati, L. (2006). Silenzio colpevole, silenzio innocente: l'interrogatorio dell'imputato da mezzo di prova a strumento di difesa nell'esperienza giuridica italiana. In M.N. Miletti (a cura di), Riti, techiche, interessi: il processo penale tra Otto e Novecento : atti del Convegno di Foggia 5-6 maggio 2006 (pp. 265-359). Milano : Giuffrè.
Silenzio colpevole, silenzio innocente: l'interrogatorio dell'imputato da mezzo di prova a strumento di difesa nell'esperienza giuridica italiana
GARLATI, LOREDANA
2006
Abstract
Il saggio ripercorre il ruolo e la rilevanza giuridica del silenzio dell’imputato nel rito processuale penale. Prendendo le mosse dalla legge di revisione costituzionale del 1999 (che ha introdotto i principi del ‘giusto processo)’, dalle conseguenti modifiche subite dall’art. 111 della nostra Costituzione, e dalla legge n. 63 del 2001 (che ha innovato in modo significativo l’art. 64 del c.p.p. dell’89) si ripercorre la storia del ‘silenzio’ per sottolineare con maggior evidenza le novità apportate delle recenti trasformazioni legislative. A partire dal Settecento, il saggio attraversa secoli di storia, illustrando il pensiero dei più autorevoli giuristi espressisi sul tema tra XVIII e XX secolo, nonché le metamorfosi normative intervenute nel medesimo arco temporale nell’esperienza europea. Nella logica del rito inquisitorio, che si fondava sulla parola dell’imputato, considerato fonte di prova nel processo che lo vedeva protagonista, il silenzio era inteso come un’offesa alla corretta amministrazione della giustizia. Per queste ragioni il taciturnus era sottoposto a tortura, affinché rivelasse le informazioni di cui si riteneva inevitabilmente in possesso. L’influenza del giusnaturalismo prima e dell’illuminismo poi, con l’enucleazione dei diritti naturali inviolabili dell’uomo (tra cui annoverare il diritto alla difesa) aprirono una breccia in una simile monolitica concezione: per un Beccaria deludente sul punto, un Franchino Rusca o un Gaetano Filangieri adombrarono precocemente la possibilità di riconoscere all’imputato un vero e proprio diritto al silenzio, mentre più cauta appariva la legislazione europea settecentesca, ancora timida nel rinunciare a forme punitive nei confronti dell’imputato silente. Un modello di riferimento importante per le successive modulazioni codicistiche sarà rappresentato del Codice di procedura penale per il Regno d’ Italia del 1807, che cristallizzerà una norma destinata a rappresentare un esempio emulato dai codici successivi: nel caso in cui l’accusato persistesse nel rifiuto a rispondere alle domande rivoltegli dal giudice, lo si avvertiva che si sarebbe proceduto nell’istruzione suo malgrado. Si modellerà su questa disposizione l’art. 261 del c.p.p. del ’13 che, pur innovando profondamente rispetto al rito del 1865, non riuscì a compiere una vera riforma ‘liberale’, pur prospettata in fase di lavori preparatori: da più parti, infatti, si era richiesto che il giudice avvertisse l’imputato dell’esistenza di un suo diritto a non rispondere, ma vanamente. Un completo ribaltamento di prospettive avvenne con il c.p.p. del ’30, che travolse anche quel semplice avvertimento o ammonizione presente nel testo Finocchiaro-Aprile, recuperando il clima del più remoto passato e ponendo nuovamente in capo all’imputato l’obbligo di parlare. Soltanto nel 1969, dopo un lungo cammino di conquista di civiltà, il principio del nemo tenetur se detegere riuscì ad ottenere pieno riconoscimento, trasformando l’interrogatorio da mezzo di prova a strumento di difesa.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.