La monografia presenta il frutto di anni di ricerca presso l’Archivio di Stato di Brescia. Si sono studiate le sentenze pronunciate dal Giudizio criminale bresciano (ossia il tribunale di 1° istanza) raccolte nel fondo Processi criminali relativo al periodo 1831-1851, con particolare attenzione al tema dell’omicidio e dell’uccisione. In quell’arco temporale i magistrati bresciani giudicarono secondo la normativa penale (sostanziale e processuale) contenuta nel Codice generale dei delitti e delle pene di matrice austriaca del 1803, entrata in vigore nel Regno Lombardo-Veneto all’indomani del Congresso di Vienna, ossia nel 1816. Tale indagine ha consentito di verificare la mentalità giuridica e l’atteggiamento di una magistratura costretta a mediare tra l’astrattezza normativa e l’effettività della sua applicazione ordinaria. L’analisi della giurisprudenza bresciana nell’età forse più matura di vigenza del codice del 1803 riserva non poche sorprese. Gli indirizzi giurisprudenziali assunti dalla corte d’oltre Mincio esprimono, forse al meglio, una frattura, a volte sfumata, a volte netta, tra l’intenzione del legislatore e l’opera di adattamento dei magistrati. Una chiave di volta per comprendere le tecniche interpretative e le modalità esecutive del codice messe in atto dal tribunale di Brescia, relativamente ai delitti contro la persona, è rappresentata dall’analisi degli orientamenti assunti dalla corte di fronte ai delitti di omicidio e di uccisione. I due delitti infatti si differenziano in ragione dell’effettiva coincidenza o meno tra volontà ed evento, come risulta da una lettura sinottica dei §§ 117 e 123 della legislazione austriaca. L’analisi dei fascicoli processuali rivela una costante oscillazione tra figure tra loro contigue, ossia omicidio, uccisione, morte in rissa, grave ferimento, tanto che alcuni dei processi istruiti per un capo di imputazione lo vedono mutare in altro di diverso titolo. A volte, la scelta di ricondurre il caso concreto sotto il nomen dell’uccisione piuttosto che dell’omicidio si palesa un abile escamotage derubricatorio. In tal modo, nel pieno rispetto formale della legge, si riserva all’imputato il trattamento sanzionatorio più mite: il carcere, anche se duro, rispetto alla soluzione estrema e definitiva della morte prevista per l’ omicidio, a dimostrazione che il pur rigido vincolo legalistico delle prove concedeva comunque al giudice spazi di intervento discrezionale. Dell’indagine svolta, che ha inteso coniugare aspetti sostanziali (omicidio e uccisione) con il tema della giustizia penale, è emersa l’immagine di una classe forense capace di perseguire, mediante il proprio operato, un preciso obiettivo: attenuare il rigore della lettera della legge mediante la sistematica scelta di qualificare la soppressione di una vita umana come uccisione (ossia delitto preterintenzionale) e non come omicidio. Emerge una classe di pratici attenti al contesto di riferimento e in grado di posare sulle fragili spalle di una società attraversata da significative variabili di emarginazione (povertà, analfabetismo, disoccupazione, trascurata e negletta educazione) un codice ferrigno come quello austriaco, calibrandone il peso sulla capacità di resistenza e di sopportazione della collettività.
Garlati, L. (2008). Il volto umano della giustizia. Omicidio e uccisione nella giurisprudenza del tribunale di Brescia (1831-1851). Milano : Giuffrè.
Il volto umano della giustizia. Omicidio e uccisione nella giurisprudenza del tribunale di Brescia (1831-1851)
GARLATI, LOREDANA
2008
Abstract
La monografia presenta il frutto di anni di ricerca presso l’Archivio di Stato di Brescia. Si sono studiate le sentenze pronunciate dal Giudizio criminale bresciano (ossia il tribunale di 1° istanza) raccolte nel fondo Processi criminali relativo al periodo 1831-1851, con particolare attenzione al tema dell’omicidio e dell’uccisione. In quell’arco temporale i magistrati bresciani giudicarono secondo la normativa penale (sostanziale e processuale) contenuta nel Codice generale dei delitti e delle pene di matrice austriaca del 1803, entrata in vigore nel Regno Lombardo-Veneto all’indomani del Congresso di Vienna, ossia nel 1816. Tale indagine ha consentito di verificare la mentalità giuridica e l’atteggiamento di una magistratura costretta a mediare tra l’astrattezza normativa e l’effettività della sua applicazione ordinaria. L’analisi della giurisprudenza bresciana nell’età forse più matura di vigenza del codice del 1803 riserva non poche sorprese. Gli indirizzi giurisprudenziali assunti dalla corte d’oltre Mincio esprimono, forse al meglio, una frattura, a volte sfumata, a volte netta, tra l’intenzione del legislatore e l’opera di adattamento dei magistrati. Una chiave di volta per comprendere le tecniche interpretative e le modalità esecutive del codice messe in atto dal tribunale di Brescia, relativamente ai delitti contro la persona, è rappresentata dall’analisi degli orientamenti assunti dalla corte di fronte ai delitti di omicidio e di uccisione. I due delitti infatti si differenziano in ragione dell’effettiva coincidenza o meno tra volontà ed evento, come risulta da una lettura sinottica dei §§ 117 e 123 della legislazione austriaca. L’analisi dei fascicoli processuali rivela una costante oscillazione tra figure tra loro contigue, ossia omicidio, uccisione, morte in rissa, grave ferimento, tanto che alcuni dei processi istruiti per un capo di imputazione lo vedono mutare in altro di diverso titolo. A volte, la scelta di ricondurre il caso concreto sotto il nomen dell’uccisione piuttosto che dell’omicidio si palesa un abile escamotage derubricatorio. In tal modo, nel pieno rispetto formale della legge, si riserva all’imputato il trattamento sanzionatorio più mite: il carcere, anche se duro, rispetto alla soluzione estrema e definitiva della morte prevista per l’ omicidio, a dimostrazione che il pur rigido vincolo legalistico delle prove concedeva comunque al giudice spazi di intervento discrezionale. Dell’indagine svolta, che ha inteso coniugare aspetti sostanziali (omicidio e uccisione) con il tema della giustizia penale, è emersa l’immagine di una classe forense capace di perseguire, mediante il proprio operato, un preciso obiettivo: attenuare il rigore della lettera della legge mediante la sistematica scelta di qualificare la soppressione di una vita umana come uccisione (ossia delitto preterintenzionale) e non come omicidio. Emerge una classe di pratici attenti al contesto di riferimento e in grado di posare sulle fragili spalle di una società attraversata da significative variabili di emarginazione (povertà, analfabetismo, disoccupazione, trascurata e negletta educazione) un codice ferrigno come quello austriaco, calibrandone il peso sulla capacità di resistenza e di sopportazione della collettività.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.