La graduale affermazione del rito inquisitorio nella giustizia penale, legata al consolidarsi degli Stati moderni in Europa, è generalmente riconosciuta dalla storiografia. Il rito inquisitorio, tuttavia, non è stato un rigido monolite sempre uguale a se stesso, immobile nel tempo, ma si è configurato in modi e forme differenti a seconda dei periodi e dei contesti istituzionali. Nemmeno si può dire che sia esistito un unico rito inquisitorio, come l’attività di ricerca va mettendo sempre più in evidenza. La presenza di una pluralità di riti inquisitori, a volte concorrenti nell’ambito di un medesimo ordinamento, con elementi in comune, ma anche con differenze di notevole rilievo, è un dato non trascurabile, che costringe a rivedere molti luoghi comuni. Una storia della giustizia penale che tenga conto di tutte queste forme di rito inquisitorio, calate nel concreto delle varie realtà politiche dell’età moderna, non è ancora stata scritta. Nello scriverla, non si potrà certamente fare a meno di prestare attenzione all’opinione dei giuristi, dei pratici, al testo e all’interpretazione delle leggi. Ma se si vorranno ricostruire determinati fenomeni, bisognerà cercare riscontri, dove possibile, nella documentazione processuale. La consuetudine è infatti una delle grandi protagoniste dell’età moderna, nello scacchiere delle fonti del diritto, accanto al diritto comune e ai diritti patri. E la consuetudine, che interpreta e integra le leggi, o sceglie tra diverse opzioni dottrinali e giurisprudenziali, spesso non ha altro modo di emergere che dall’osservazione delle carte giudiziarie. Senza gettare uno sguardo nella tela dei processi, d’altronde, non riusciremmo neanche a comprendere come e quanto effettivamente operasse ed evolvesse l’arbitrium dei giudici, al quale pure spetta un posto di grande rilievo nei riti inquisitori moderni; quali strategie di difesa venissero adottate dagli avvocati, nel ventaglio degli strumenti a loro disposizione; quali margini d’azione fossero realmente riservati alla vittima del reato e ai suoi familiari; quali spazi rimanessero aperti per la trattativa privata; quali concezioni del processo fossero veicolate dai riti praticati. Eccoci così ricondotti al filo conduttore di questo saggio, dedicato a tradizione e innovazione nel diritto processuale della Repubblica di Venezia nell’età moderna, e che studia la struttura e l’evoluzione del rito inquisitorio praticato nelle corti cittadine venete, con le sue fasi e soprattutto la sua natura dialettica, forse l’eredità più importante e consistente dell’età medievale: una dialettica ovviamente diversa da quella del rito accusatorio medievale, ma pur sempre esistente, e i profondi mutamenti intervenuti nella struttura e nei fini del processo penale dovuti all’intervento più energico delle corti centrali veneziane, a partire dagli ultimi decenni del ‘500, propense ad adottare un modello di giustizia penale punitiva, chiusa al confronto e alla soddisfazione di eventuali istanze di pacificazione, finalità che il rito inquisitorio modellato secondo altre regole giurisprudenziali permetteva invece di soddisfare. Nello specchio delle sentenze e dei processi è possibile cogliere, nello scenario di una ulteriore dialettica, quella tra corti cittadine locali e corti centrali, l’incontro-scontro tra due diverse concezioni della giustizia e del processo penale, le quali, nella peculiare esperienza della Repubblica veneta, danno luogo nel tempo a diverse forme di processo inquisitorio (e quindi di discrezionalità giudiziale, e di rapporto tra giudice e parti), sotto il controllo e la supervisione delle corti centrali. A questo spazio di sperimentazione della procedura penale è ispirato il saggio.

Chiodi, G. (2009). Il giardino dei sentieri che s'incontrano. Processo penale e forme di giustizia nella Terraferma veneta (secoli XVI-XVIII). In Saggi in ricordo di Aristide Tanzi (pp. 85-166). Milano : Giuffrè.

Il giardino dei sentieri che s'incontrano. Processo penale e forme di giustizia nella Terraferma veneta (secoli XVI-XVIII)

CHIODI, GIOVANNI
2009

Abstract

La graduale affermazione del rito inquisitorio nella giustizia penale, legata al consolidarsi degli Stati moderni in Europa, è generalmente riconosciuta dalla storiografia. Il rito inquisitorio, tuttavia, non è stato un rigido monolite sempre uguale a se stesso, immobile nel tempo, ma si è configurato in modi e forme differenti a seconda dei periodi e dei contesti istituzionali. Nemmeno si può dire che sia esistito un unico rito inquisitorio, come l’attività di ricerca va mettendo sempre più in evidenza. La presenza di una pluralità di riti inquisitori, a volte concorrenti nell’ambito di un medesimo ordinamento, con elementi in comune, ma anche con differenze di notevole rilievo, è un dato non trascurabile, che costringe a rivedere molti luoghi comuni. Una storia della giustizia penale che tenga conto di tutte queste forme di rito inquisitorio, calate nel concreto delle varie realtà politiche dell’età moderna, non è ancora stata scritta. Nello scriverla, non si potrà certamente fare a meno di prestare attenzione all’opinione dei giuristi, dei pratici, al testo e all’interpretazione delle leggi. Ma se si vorranno ricostruire determinati fenomeni, bisognerà cercare riscontri, dove possibile, nella documentazione processuale. La consuetudine è infatti una delle grandi protagoniste dell’età moderna, nello scacchiere delle fonti del diritto, accanto al diritto comune e ai diritti patri. E la consuetudine, che interpreta e integra le leggi, o sceglie tra diverse opzioni dottrinali e giurisprudenziali, spesso non ha altro modo di emergere che dall’osservazione delle carte giudiziarie. Senza gettare uno sguardo nella tela dei processi, d’altronde, non riusciremmo neanche a comprendere come e quanto effettivamente operasse ed evolvesse l’arbitrium dei giudici, al quale pure spetta un posto di grande rilievo nei riti inquisitori moderni; quali strategie di difesa venissero adottate dagli avvocati, nel ventaglio degli strumenti a loro disposizione; quali margini d’azione fossero realmente riservati alla vittima del reato e ai suoi familiari; quali spazi rimanessero aperti per la trattativa privata; quali concezioni del processo fossero veicolate dai riti praticati. Eccoci così ricondotti al filo conduttore di questo saggio, dedicato a tradizione e innovazione nel diritto processuale della Repubblica di Venezia nell’età moderna, e che studia la struttura e l’evoluzione del rito inquisitorio praticato nelle corti cittadine venete, con le sue fasi e soprattutto la sua natura dialettica, forse l’eredità più importante e consistente dell’età medievale: una dialettica ovviamente diversa da quella del rito accusatorio medievale, ma pur sempre esistente, e i profondi mutamenti intervenuti nella struttura e nei fini del processo penale dovuti all’intervento più energico delle corti centrali veneziane, a partire dagli ultimi decenni del ‘500, propense ad adottare un modello di giustizia penale punitiva, chiusa al confronto e alla soddisfazione di eventuali istanze di pacificazione, finalità che il rito inquisitorio modellato secondo altre regole giurisprudenziali permetteva invece di soddisfare. Nello specchio delle sentenze e dei processi è possibile cogliere, nello scenario di una ulteriore dialettica, quella tra corti cittadine locali e corti centrali, l’incontro-scontro tra due diverse concezioni della giustizia e del processo penale, le quali, nella peculiare esperienza della Repubblica veneta, danno luogo nel tempo a diverse forme di processo inquisitorio (e quindi di discrezionalità giudiziale, e di rapporto tra giudice e parti), sotto il controllo e la supervisione delle corti centrali. A questo spazio di sperimentazione della procedura penale è ispirato il saggio.
Capitolo o saggio
processo penale; Repubblica di Venezia
Italian
Saggi in ricordo di Aristide Tanzi
2009
88-14-14065-0
Giuffrè
85
166
Chiodi, G. (2009). Il giardino dei sentieri che s'incontrano. Processo penale e forme di giustizia nella Terraferma veneta (secoli XVI-XVIII). In Saggi in ricordo di Aristide Tanzi (pp. 85-166). Milano : Giuffrè.
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